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O ti meno o ti proteggo. Ovvero parlare di violenza di genere tra sedicente femminismo e maschilismo benevolo.

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Questo articolo è uscito sull’edizione online di Europa.

di Christian Raimo

La violenza di genere è diventata un argomento mainstream. Termini come stalking, femminicidio sono parole che oggi conoscono anche i ragazzini di dieci anni. I cartelloni sei per tre, le fiancate degli autobus anche negli ultimi mesi hanno ospitato una serie di campagne pubblicitarie, istituzionali, progresso, commerciali con al centro la questione.

Questa, per esempio, è la campagna del giornale L’Unità.

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I sette claim sono:

– Se il tuo sogno d’amore finisce a botte, svegliati!
– Gli schiaffi sono schiaffi, scambiarli per amore può farti molto male.
– Non sposare un uomo violento. I bambini imparano in fretta.
– Un compagno violento non ti accompagna nella vita. Al massimo all’ospedale.
– Hai un solo modo per cambiare un fidanzato violento. Cambiare fidanzato.
– Un violento non merita il tuo amore. Merita una denuncia.
– Sai già che picchia. Quando picchia alla porta non aprire.

 

Questa è quella promossa da una Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna:

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Questa è la campagna intitolata “Punto su di te” da Pubblicità Progresso che ha piazzato in giro per strada dei cartelloni con dei fumetti parlanti a metà per vedere se qualcuno ci scriveva qualche insulto, ed è successo.

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Ma hanno pensato di fare una campagna apposta anche marchi di abbigliamento di Coconuda.

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E Yamamay:

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L’impressione che questa ondata di comunicazione trasmette è che si sia abbastanza conformato un messaggio e un linguaggio comune sulla questione: forse efficace perché semplice, o forse molto condivisibile perché semplificato. Di questo discorso sono protagonisti donne vittime e uomini violenti, o donne che dovrebbero denunciare e uomini buoni che sanno dare l’esempio. Non si parla di educazione; sostituita dalla denuncia. E si coccola questo pseudo-concetto molto moderno che si chiama “sensibilizzazione”, che sta a voler dire un po’ qualunque cosa. La violenza di genere in tutti i casi è vista come una sorta di malattia sociale da stigmatizzare socialmente per criminalizzarla. Nessuna parte di questo discorso prevede che tra uomini violenti e uomini buoni possa esistere una casistica più ampia; nessuna parte di questo discorso affronta la questione in senso culturale; nessuna parte di questo discorso prova a problematizzare la questione della violenza tout-court e della violenza di genere in particolare. Vorrei tentare di fare queste tre cose.

1.

È piuttosto deludente se non deprimente come una parte del nuovo femminismo, o meglio della ricezione nei media del nuovo femminismo, abbia di fatto ristretto una visione politica complessa a una mera “questione femminile”. Nel meno peggiore dei casi le donne vengono convocate a discutere di maternità, relazioni, crisi della famiglia…; nel peggiore vengono chiamate in causa come vittime di una società maschilista: persone da aiutare. Se è vero che nell’ultimo Parlamento, nelle giunte locali delle ultime elezioni, la componente femminile è leggermente maggiore delle precedenti legislature, è vero anche la prospettiva femminista è quasi completamente assente – ridotta appunto a una militanza testimoniale, da comunità ginocratica, genetica più che di genere, chiamata in causa al massimo per i femminicidi e simili.

La novità che invece rappresentò il femminismo negli anni Settanta fu quella di ripensare una grammatica politica a partire da una rilettura della polis nel privato. Come sottolinea Lea Melandri in Amore e violenza, è chiaro che quella rivoluzione pacifica che è stato il femminismo nutriva (ed era nutrita da) altre correnti parallele: il movimento non-autoritario, l’ecologismo, la riflessione sulla biopolitica… Se ci si dimentica, o si rimuove, tutto questo, l’idea di femminismo che ci resta è quella di un momento di rivendicazione, al massimo di emancipazione, non certo di liberazione: una stagione, se vogliamo essere benevoli – in cui le nostre mamme o le nostre nonne facevano casino. Il pensiero della differenza, l’autocoscienza, i collettivi… gli strumenti politici rivoluzionari del femminismo rimangono nei documentari musealizzanti; la condizione di minorità, di debolezza, sembra invece sempre attuale.

Questo sedicente e presunto femminismo che considera le donne solo come vittime – lo dico da maschio che invece viene messo in crisi in ciò che ha di più caro (la sua presunta superiorità, la sua presunzione intellettuale) da una Carla Lonzi o una Susan Faludi e non dalle battaglie rivendicative – è penoso, inutile, e politicamente regressivo.

Per esempio. L’immagine che nelle campagne dell’Unità e di Noino.org si hanno dei maschi sono duplici e false: in un caso hanno la faccia sbarrata dei killer potenziali, nell’altro la versione bonaria degli uomini buoni, protettivi, “migliori”. È un’idea del maschile riduttiva, inservibile, che una pratica femminista non può che contestare. E in questi mesi ha anche provato a farlo, criticando l’impostazione emergenziale; ma rimanendo di fatto perplessa di fronte all’attenzione mediatica: avere finalmente l’occhio di bue puntato su questi temi sarà buono o sarà controproducente?

Gli assenti ancora una volta, purtroppo viene da dire, sono stati gli uomini. Ci sono, va riconosciuto, uomini che da anni si occupano di questioni di genere, quelli di Maschileplurale sono i più noti tra un piccolo nucleo di gruppi e associazioni che fanno un lavoro di militanza da anni; e in questi giorni non sarebbe sbagliato andarsi a recuperare un librino-conversazione a due voci di Stefano Ciccone e Lea Melandri per Effigie, Il legame insospettabile tra amore e violenza.

E non sono mancati interventi pubblici di voci riconoscibili, anche in luoghi importanti, ma questi discorsi dei maschi soprattutto quando arrivano sui media popolari, pur nella loro acutezza, mancano spesso dell’elemento essenziale che sarebbe utile per un dialogo: il partire da sé. Ossia: non tanto porsi il problema della violenza di genere, non tanto criticare i modelli di maschilismo invalsi, non tanto raccontare quando fummo colpevolmente cauti da non stare dalla parte delle donne vittime, quanto provare a esplorare la propria educazione sentimentale e sessuale maschile, la propria tensione verso la violenza, la propria somiglianza di genere rispetto ai questi incredibili bruti.

È possibile che non ci sia mai un intellettuale maschio che racconti non dico la sua abitudine a andare a prostitute o quella volta che fu vicino a stuprare una donna, ma semplicemente riesca a confessare le sue telefonate ossessive, gli appostamenti sotto casa, le mail ricattatorie? Possibile che non ci siano maschi che riescano a mostrare queste fragilità, questa violenza implosa?

Perché questo è lo stato emotivo del tempo in cui viviamo; non un altro, non un’astratta utopia di maschi consapevoli e donne liberate – ma forse nemmeno un disastro apocalittico e irredimibile. La disfunzionalità – in fondo ci facciamo i conti tutti i giorni nei nostri rapporti – è quasi la norma.

Sapete un luogo della rete dove è visibile in modo argentino questa enorme difficoltà relazionale? I siti di seduzione. Andate a farvi un giro su internet e scoprirete in mezzo ai centinaia di blog chiamati imparaasedurla.it, comericonquistarelatuaex.it, comeritrovarelamore.it, una gigantesca quantità di dolore e di frustrazione, dove sedicenti esperti autobattezzatisi roba tipo Mr.Seduzione distribuiscono consigli a tamburo battente e cercano di improvvisare strategie di comportamento fatte di buon senso e tecniche manipolatorie. Chi sono gli uomini che affollano queste discussioni? Un’altra razza? Ci potremmo sedere a un bar con loro? Ci potremmo insegnare l’un l’altro qualcosa? Ci sentiremmo meno soli nei nostri dissesti sentimentali?

2.

Nel 2007 uscì un libro editorialmente sfortunato, verrebbe da dire. Lo scrisse Daniela Danna, lo pubblicò Eleuthera, s’intitolava Ginocidio. Aveva come suo obiettivo esplicito quello di provare a inserire questo neologismo, “ginocidio”, nel dibattito pubblico, in un momento in cui i casi di assassini di donne erano relegati in qualche sporadico trafiletto di cronaca locale. Aveva scelto male il momento e il titolo, ma aveva azzeccato molte altre cose. Ossia aveva capito che la questione della violenza di genere andava esplorata con un’ottica disciplinare e non giornalistica. Se i legislatori che hanno formulato la brutta legge sul femminicidio o i pubblicitari che hanno ideato le discutibili campagne anti-violenza avessero letto il libro della Danna avrebbero fatto propria forse una prospettiva più laica, o quantomeno più problematica. Si sarebbero chiesti come e perché si manifesta la violenza contro le donne e non si sarebbero precipitosamente affannati a cercare di dare una risposta legislativa, mediatica, all’ansia del momento.

Nella parte iniziale del libro Danna, sociologa dell’Università di Milano, insiste su un punto preliminare, linguistico. Circoscrive meritoriamente il campo in modo da dare legittimità e non solo attenzione al discorso che le interessa: si chiede di cosa parliamo quando parliamo di violenza di genere.

“Per valutare la posizione delle donne con un metro oggettivo, senza farsi trarre in inganno dall’acquiescenza di coloro che sono totalmente schiacciate da un potere maschile e tradizionale da aver rinunciato persino a una posizione migliore, la filosofa statunitense Martha Nussbaum ha applicato ai rapporti tra i sessi l’approccio basato sulle ‘capacità’ di Amartya Sen. Sen riconosce il problema dell’adattività delle preferenze, cioè del fatto che normalmente si esercita la facoltà di scelta solo tra gli obiettivi che sono effettivamente raggiungibili, e dunque la scelta non è un buon criterio per giudicare la volontarietà di un’azione. […] È solo nel momento in cui si intravede un’alternativa che il comportamento violento, fino ad allora subito, diventa inaccettabile e viene finalmente nominato come tale. A volte è sufficiente una pausa di riflessione, un confronto con persone che provengono da un ambiente diverso, una convalida della propria percezione di ingiustizia: ‘Mio marito mi picchia, viene a letto con me quando non voglio e io devo obbedire. Prima di venire intervistata non ci pensavo veramente. Pensavo che fosse naturale. Per un marito questo è il giusto modo di comportarsi’, ha dichiarato una donna senegalese nell’ambito di un’inchiesta dell’Organizzazione mondiale per la Sanità”.

Notare le differenze: se qui il focus è l’educazione alla consapevolezza e all’autonomia, il messaggio che passa dalla legge o dalle campagne mediatiche è che “intravedere un’alternativa” pare significhi individuare modelli alternativi di relazione, ma criminalizzare alcune persone e frequentarne altre. Emargina i cattivi: non una grande idea da un punto di vista politico. E tra l’altro, senza volerlo, questa soluzione marginalizzante comporta una specie di rimozione classista rispetto alle questioni di genere. Le donne che possono vedere riconosciuti i propri diritti sono quelle che se lo possono permettere: che hanno un’istruzione adeguata, la cui condizione socio-economica consente l’indipendenza da un uomo, che possono decidere di lasciare la casa dove vivono con il compagno violento. Ossia: il messaggio che passa nella denuncia del femminicidio riguarda soltanto una parte piccola di donne che riescono realizzare concretamente una messa a distanza o almeno a porsi l’idea di un’alternativa reale, altrimenti – questo è chiaro – io donna nemmeno sono capace di vederla questa violenza, mi rimane fantomatica.

Nel momento in cui l’“alternativa” è soltanto la denuncia e lo stigma sociale, la responsabilità collettiva è come se avesse dichiarato forfait. La politica si è lavata le mani dando i soldi a qualche pubblicità progresso o a qualche reading con attori impegnati.

Insomma la verità è che sembra funzionare rispetto all’intera questione una sorta di doppio legame: le femministe, per vedere riconosciuto il valore di certe battaglie, è come se dovessero disconoscere il proprio metodo. Un femminismo light, analcolico.

Continua a leggere sul sito di Europa.

Quiinvece, per chi vuole, c’è un’ottima bibliografia – curata dall’Università delle Donne – del materiale reperibile in rete sulla discussione italiana su questi temi.


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